lunedì, settembre 24, 2007

Armi di infrazione di massa


Molti di voi avranno sentito parlare della "Procedura di infrazione", un meccanismo attraverso il quale l'unione europea verifica la conformità dell'operato degli stati membri nei confronti della normativa comunitaria.

Può sembrare che si tratti di questioni prevalentemente burocratiche, ma non c'è impressione più sbagliata: la corte di giustizia europea vigila sul rispetto delle norme, anche (e nel nostro caso soprattutto) in materia ambientale.
Potete dare una occhiata alle procedure di infrazione che il nostro paese si è attirato (fonte: Ministero delle politiche comunitarie) da quando esiste questo strumento:
Affari economici e finanziari 9
Affari esteri 2
Affari interni 7
Agricoltura 5
Ambiente 64
Appalti 20
Comunicazioni 3
Concorrenza e aiuti di stato3
Energia 6
Fiscalità e dogane19
Giustizia 2
Istruzione, università e ricerca2
Lavoro e affari sociali 16
Libera circolazione dei capitali 1
Libera circolazione delle merci 9
Libera circolazione delle persone 1
Libera prestazione dei servizi e professioni10
Pesca 4
Salute22
Trasporti 7
Tutela dei consumatori 1
Come si vede l'ambiente, in questa triste classifica, fa la parte del leone.

Se poi avete la curiosità di andare a vedere per quale motivo si proceda così tanto nei nostri confronti, andate pure alla maschera di interrogazione del sito della Curia europaea, e inserite la magica parola "habitat", per vedere cosa succede.

In prevalenza, rispetto alle altre motivazioni l'italia ha subito e continua a subire, c'è una lunga serie di procedimenti che spesso termina in una condanna (o nel migliore dei casi con interventi correttivi in extremis) per il non rispetto della direttiva habitat, quella che ha istituito la rete Natura 2000 e gli strumenti ad essa collegati (Valutazione di incidenza e Piano di Gestione).

Ma di che si tratta precisamente? Nel 1993, con la direttiva Habitat, si è stabilito che ogni stato UE delimitasse dei siti di interesse comunitario (SIC), istituiti per proteggere aree di territorio nelle quali si trovano habitat naturali (o anche seminaturali) rari e delle zone di protezione speciale (ZPS), nelle quali soggiornano periodicamente specie di uccelli divenute rare (qui trovate il database e le cartografie dei siti).
In queste zone si devono adoperare tutti quei provvedimenti necessari a conservare quelle specie e quegli habitat. E qui sta il punto della discordia, perchè la rete natura 2000 è nata per preservare le specie attraverso una conservazione attiva, che deve mirare al risultato.

Il cuore della direttiva è l'art.6, che recita:

1. [...] gli Stati membri stabiliscono le misure di conservazione necessarie che implicano all'occorrenza appropriati piani di gestione specifici o integrati ad altri piani di sviluppo e le opportune misure regolamentari, amministrative o contrattuali che siano conformi alle esigenze ecologiche dei tipi di habitat naturali [...] e delle specie [...] presenti nei siti.

E qui sorgono le prime domande: quante sono le misure necessarie? quando un piano può dirsi appropriato? come si stabilisce la conformità di misure di tipo amministrativo ad esigenze di tipo ecologico? E sopratutto, aggiungo io, come fa il gestore “istituzionale” di un sito a fronteggiare adeguatamente la sua inevitabile ignoranza in materia?

2. Gli Stati membri adottano le opportune misure per evitare nelle zone speciali di conservazione il degrado degli habitat naturali e degli habitat di specie nonché la perturbazione delle specie per cui le zone sono state designate, nella misura in cui tale perturbazione potrebbe avere conseguenze significative [...].
Anche se la frase sembra vaga, lo stato di conservazione di un habitat si può stabilire con sufficiente precisione: numero e consistenza delle specie presenti, presenza di minacce, trend evolutivo dell'ecosistema. Se un habitat naturale risulta particolarmente degradato (in un SIC) o il contingente di una specie aviaria rara (per le ZPS) o di altro gruppo sistematico (per i SIC) risulta in diminuzione, e non sono state realizzate tempestive misure correttive, si rischia una condanna.
3. Qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso e necessario alla gestione del sito ma che possa avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti, forma oggetto di una opportuna valutazione dell'incidenza che ha sul sito[...]

Anche questo comma è foriero di procedure di infrazione. Il significato è inequivocabile: qualunque attività organizzata (dalla sagra paesana alla realizzazione di una strada, dal taglio selettivo del bosco alle concessioni sulle spiagge di un lago) è soggetta a una procedura di valutazione degli impatti che questa attività comporta sul sito. Addirittura, la valutazione deve essere fatta anche se ciò non accade dentro il sito ma nelle sue vicinanze; purchè i suoi impatti su quest'ultimo siano chiari ed evidenti.

Chi legge attentamente queste righe, si renderà conto che non è previsto nessun divieto. La logica di questa normativa infatti è quella di ottenere il risultato della conservazione responsabilizzando chi le aree le gestisce. Molte cose possono essere concesse, purchè adeguatamente bilanciate da una politica di monitoraggio e di intervento attiva.

Il rovescio della medaglia è che in Italia (abituata alla dicotomia consentito-vietato) questo approccio non è stato affatto capito, come a dire che tutto, più o meno, si può fare.
E' sufficiente consultare il database delle procedure di infrazione per rendersi conto di come l'italico amministratore abbia fino a poco tempo fa schifato le aree “Natura 2000”, per poi considerarle, in qualche caso, la peste bubbonica di ogni piano regolatore.

E' emblematico il caso della famigerata funivia realizzata e delle piste da sci "ritoccate" (Giunta Formigoni) nell'alta Lombardia, spianando una torbiera ricca di specie endemiche e relitte e tirando giù un numero di alberi triplo rispetto a quanto previsto dalla valutazione di impatto ambientale dell'opera (qui la lista completa dei danni). E infatti, è appena arrivata la condanna della corte di giustizia europea.

Nel prossimo post vi spiegherò come un semplice cittadino possa innescare una procedura di infrazione (casomai qualcuno fosse interessato...)

sabato, settembre 15, 2007

Nucleare: i risultati del sondaggio



Finalmente è venuto il momento di commentare il mio primo sondaggio.
Alla chiusura delle votazioni sono stati conteggiati 57 voti: statisticamente non molti per dare una idea accurata delle reali proporzioni, ma quantomento penso di poter dare una interpretazione abbastanza indicativa dei risultati.

Un blog dichiaratamente ambientalista, innanzitutto, non può non tener conto del fatto che le opinioni dei suoi lettori siano orientate verso una certa corrente di pensiero. Per questo, sul mio blog una domanda come "sei favorevole o contrario al nucleare?" non avrebbe avuto senso: i contrari avrebbero superato il 90%, e il sondaggio sarebbe stato inutile.
Perciò la domanda del sondaggio "Cosa temi di più della tecnologia nucleare" dava per scontato che chi rispondeva fosse tendenzialmente contrario a una nuova adozione di questa opzione energetica, concentrandosi invece su quelli che sono i pericoli percepiti dai lettori del blog.

I risultati

I voti sono stati così distribuiti:
Il fatto che è una reazione a catena: 8 voti, pari al 14%
Le scorie esauste: 33 voti, pari a quasi il 58%
La paura di non sapere la verità: 16 voti, pari al 28%
Le emissioni in fase di esercizio: 0 voti
Il risultato di questo sondaggio offre quindi alcune conferme e alcune sorprese. Per parte mia immaginavo che restituisse un'opinione un po' più distribuita tra le opzioni possibili.
Invece, il problema delle scorie esauste ha dimostrato di essere il maggiore punto di contrarietà, una contrarietà che ha assunto un grosso margine: più della metà dei voti.

La "paura di non sapere la verità" segue con poco meno di un terzo dei voti; non è poco, considerando che si tratta di un problema che in teoria dovrebbe essere il più facile da risolvere.

Le due risposte inerenti il "funzionamento" della centrale nucleare hanno raccolto molto poco. Addirittura, nessuno ha reputato di avere una forte preoccupazione nei confronti del suo esercizio quotidiano.

Ne trarrei quindi queste conclusioni:
Il problema delle scorie è, e probabilmente rimarrà a lungo, il più grande deterrente nei confronti della tecnologia nucleare. La motivazione può essere letta sia nella paura di avere a che fare con il trasporto di materiale radioattivo, sia nel rischio che i depositi (temporanei o permanenti che siano) possano disperdere radionuclidi nell'ambiente, sia ancora nella volontà di non consegnare una brutta eredità alle generazioni future.

Il funzionamento generale di una centrale nucleare non desta grosse preoccupazioni. Si ha abbastanza fiducia nel fatto che la reazione a catena della fissione possa essere controllata senza problemi dalle tecnologie di contenimento attuali. Nessuno poi, ha ritenuto di preoccuparsi eccessivamente delle emissioni "quotidiane" (fatto che mi ha un po' sorpreso).

La paura di non sapere la verità è abbastanza radicata nell'immaginario collettivo. Il cittadino italiano, diffidente (e come dargliene torto) verso le istituzioni, non riterrebbe di essere sufficientemente tutelato in caso di incidente. Combinando questa considerazione con la precedente, ne emerge un quadro per cui sembra che il ragionamento generale sia: "mi fiderei anche, ma solo fintanto che tutto va bene".

Commenti
A questo punto potremmo porci la domanda: "Che differenza c'è tra quanto viene percepito e la realtà dei fatti?". Certamente non posso dare "LA" risposta, perché molti aspetti della mia posizione sono questionabili, ma faccio qualche considerazione.

Il principio di funzionamento di un reattore nucleare si basa sulla reazione a catena generata dalla fissione. Questa è una caratteristica intrinseca di questa tecnologia che in passato ha creato tanti problemi, famigerato il caso del famoso incidente di Three Miles Island (vi consiglio di leggere questo dettagliatissimo rapporto su cosa accadde in quella circostanza), negli stati uniti. In quel caso il nocciolo fuse e penetrò nel sottosuolo. Le tecnologie attuali creano un sistema di sicurezza molto più raffinato, ma è certo che se lo sfruttamento dell'energia nucleare non si basasse su questo principio, sarebbero intrinsecamente impossibili quasi tutti gli incidenti finora occorsi.

Le scorie esauste vengono vetrificate e quindi rese inerti. Non possono polverizzarsi, non hanno problemi di lisciviazione. Sembrerebbe di dedurre che sia sufficiente confinarle per non avere pericoli. Eppure, la scorsa primavera presso l'impianto di stoccaggio e riprocessamento di La Hague in Francia, furono rilevate alte dosi di radioattività nei corsi d'acqua e perfino nei prodotti caseari (potete leggere qui). Com'era potuto accadere?
La storia recente ha dimostrato che in qualunque paese (anche "evoluto") si vada non c'è modo di sapere quante scorie vengono stoccate, come vengono trattate, quanto tempo passa dall'arrivo al riprocessamento, quale monitoraggio ambientale si faccia nei dintorni. Finchè esisteranno le scorie nucleari, non ci sarà adeguata trasparenza e non si chiuderà il ciclo, questo problema rappresenterà un grosso deterrente verso l'energia nucleare.

La paura di non sapere la verità è un problema che sta acquisendo sempre più importanza, non perchè si tenda a nascondere le cose più che in passato, ma perchè ormai i cittadini cominciano a pretenderla e ad avere gli strumenti legali sia per ottenerla, sia per avere voce in capitolo nelle scelte. E' un processo straordinario, che molte istituzioni continuano a sottovalutare, compiendo errori di valutazione grossolani.

Veniamo infine al problema delle emissioni in fase di esercizio. Sono d'accordo sul fatto che in condizioni normali non ci sia di che preoccuparsi, e che la radioattività ambientale cresca di quantità molto basse rispetto alla variabilità del fondo naturale tra luogo e luogo. E' vero però che esiste una forma di impatto sottovalutata, che caratterizza tutte le centrali elettriche che basano la produzione di energia sul vapore: il consumo d'acqua. Una stima dell'U.S. Geological Survey ci indica che nel 2000, nei soli stati uniti, l'evaporazione del 3% del prelievo idrico utilizzato per il raffreddamento delle centrali (sia nucleari che termoelettriche), è costata ben 22 km cubi di acqua. Il suo contenimento nei prossimi anni potrebbe diventare un fattore determinante perfino per la sopravvivenza di alcune centrali elettriche "convenzionali" già esistenti.

Tempo fa, in questo post, ho parlato degli acceleratori nucleari, una tecnologia allo studio, che promette di risolvere in futuro tutti i problemi citati, prima fra tutti la sicurezza "intrinseca". Non per niente ho votato anch'io, la prima risposta.

A breve pubblicherò un nuovo sondaggio.

martedì, settembre 11, 2007

L'ascesa del solare a concentrazione


Foto di Schwarzerkater

Nessuno dica che i cartoni animati non sono istruttivi. Da piccolo ero affascinato dai paradossi termodinamici che caratterizzavano i robot della televisione; Daitarn III (uno dei miei preferiti) sfruttava meravigliosamente l'energia solare senza possedere alcun pannello fotovoltaico, nessuna superficie assorbente, nulla. Forse a lui si sono ispirati i tecnici delle ormai tante società che in giro per il mondo stanno costruendo innovativi pannelli fotovoltaici a concentrazione. O più prosaicamente, sono stati ispirati dalla continua ascesa del prezzo del silicio monocristallino, quasi monopolizzato dall'industria dei semiconduttori.

Oggi produrre un pannello tradizionale costa tantissimo perchè il processo di purificazione del silicio è oneroso e conteso dall'industria elettronica. In più i rendimenti continuano ad essere troppo bassi (al massimo il 20% per le tecnologie in produzione) e i nuovi materiali (leghe gallio-Arsenico o cadmio-tellurio) comportano costosi processi di produzione e seri problemi di impatto ambientale a fine ciclo. Come fare quindi per risolvere il problema?

Il principio che unisce i progetti a concentrazione, è che se l'elemento assorbente deve essere il più piccolo possibile è necessario convogliare su di esso la quantità di energia che cadrebbe su una grande superficie. Per fare questo serve uno specchio che concentri sull'elemento fotosensibile i raggi del sole. Con questo sistema concentro su pochi cm quadrati ciò che cadrebbe su un metro quadrato. Per farlo ci sono due ipotesi: la prima è che l'elemento di silicio sia collocato dietro una lente trasparente curva; la seconda è che l'elemento sia davanti alla lente, la quale agisce da specchio riflettente. Nel primo caso avremo un pannello di forma analoga a quello classico, nel secondo una parabola simile a quella satellitare.

Questi sistemi però hanno uno svantaggio: poichè le superfici curve concentrano il sole in un punto, e tale punto deve essere il sensore, è necessario che questo sia perfettamente in asse con il fuoco della lente. Ciò significa che il dispositivo deve il più possibile guardare il sole e quindi essere dotato di un sistema di "inseguimento" della radiazione incidente (anche perchè, se non lo fa, l'energia viene direzionata altrove con drastiche cadute della resa). Sono del primo tipo i pannelli prodotti da Armonix, Arontis (che produce dei pannelli ibridi fotovoltaico-termico di cui ho già parlato) e Soliant.

Ma un consorzio dal cuore italiano, che su un nucleo di ricercatori dell'università di Ferrara ha polarizzato gli investimenti di ENI e ST Microelectronics (tra gli altri) ha fatto di meglio (com'è che quando si parla di inventiva non ci batte nessuno?).
Hanno creato un prototipo di specchio parabolico capace di scindere le lunghezze d'onda della luce proiettandole, concentrate, su dei sensori specializzati nell'assorbimento di quelle specifiche lunghezze d'onda. Sembra l'uovo di colombo: rese del 40% su superfici molto più contenute.

Che sia davvero la "disruptive technology" che stavamo aspettando?
Per ora, non sono disponibili molte informazioni, ma come per il kitegen, attendiamo fiduciosi.

Per approfondimenti
L'energia solare e la tecnologia fotovoltaica - approfondimenti tecnici